Il Fronte del Cielo - Le Idee - Gabriele D'Annunzio

Nulla sarebbe più errato che vedere con occhi austriaci l’apparizione degli SVA italiani nel cielo di Vienna il 9 agosto 1918, quasi che il momento universalmente noto del rapporto tra Gabriele D’Annunzio e il volo fosse frutto dell’improvvisazione italiana. Ma proprio la notorietà dell’impresa, come un lampo di luce che illumina improvvisamente una stanza buia costringendo l’occhio a socchiudersi, è d’ostacolo alla comprensione di quel legame. Che anche D’Annunzio vedesse nella militanza aeronautica un elemento di distinzione della sua già eclatante vita, si può dedurre dalla scelta di farsi seppellire con la divisa dell’Aeronautica. Che la nuova Arma, alla ricerca di padri che potessero in qualche modo nobilitarne la gioventù, abbia volentieri ceduto a certe debolezze dannunziane, è comprensibile. Ma che la sua partecipazione, funzione e apporto al volo si esauriscano in un atto audace è una distorsione o un luogo comune. Per D’Annunzio, infatti, Vienna fu piuttosto il coronamento del desiderio, covato per quasi tre anni, di completare la trilogia già iniziata con i sorvoli delle città simbolo degli scopi della guerra italiana. E’ opportuno, innanzitutto, sgomberare il campo dall’equivoco che vorrebbe squalificare l’attività aviatoria di D’Annunzio solo perché effettuata da chi pilota non era. Anche a prescindere dall’ovvia considerazione di come l’intero equipaggio si esponesse allo stesso rischio senza distinzioni di ruolo, bisogna tenere conto del fatto che durante la Grande Guerra l’osservazione fosse la missione principale e che il capo-velivolo non fosse il pilota ma l’osservatore. Di più: salvo che nelle squadriglie da caccia, i comandanti di reparto erano spesso osservatori, e alcuni dei quali conseguirono il brevetto di pilotaggio solo nel dopoguerra o dopo essere transitati nella nuova Regia Aeronautica. Sarebbe arbitrario, pertanto, ritenere che l’osservatore fosse quella sorta di “zavorra ambulante” in cui si sarebbe trasformato più avanti.
Allo stesso modo, si deve separare D’Annunzio dai dannunziani, dai suoi stessi atteggiamenti e dalla mitologia che egli si costruì con scrupolo e attenzione. Per studiare il rapporto è, dunque, necessario andare oltre Vienna, oltre l’atto eroico, oltre i pur numerosi voli di guerra, per scoprire cosa si celasse sotto parole, gesti e vicende volutamente estetizzanti e fuorvianti. E’ necessario, insomma, sfuggire alla quasi inevitabile tentazione di chiedersi se sia stata vera gloria, per domandarsi piuttosto se fu sola gloria. Del suo interesse per il volo si rinvengono tracce continue dal 1909, quando iniziò a raccogliere materiale per il romanzo Forse che sì forse che no del 1910. Il rientro in Italia nel 1915 significò anche tornare a volare, partecipando da tenente osservatore a diversi, importanti voli, spesso di sua stessa concezione. Il 7 agosto 1915, il poeta già volava su Trieste su un idrovolante Albatros della Marina pilotato dal tenente di vascello Luigi Miraglia; il 20 settembre, era nel cielo di Trento su un Farman dell’Esercito pilotato dal capitano Ermanno Beltramo; poi, a fine anno, più regolarmente, volava come osservatore sui Voisin della 7^ Squadriglia. Il 16 gennaio 1916, volando col tenente di vascello Luigi Bologna su un Macchi L1 subì il celebre incidente che gli costò la perdita dell’occhio destro e lo costrinse a circa nove mesi di inattività, durante i quali compose faticosamente il Notturno. Un nuovo volo, effettuato il 13 settembre 1916 contro il parere dei medici, lo restituì alla vita attiva, anche se il fastidio causato dalla benda sull’occhio offeso lo costrinse a ripiegare sul ruolo di ufficiale di collegamento presso la 45^ Divisione. Questo periodo coincise anche con la trasformazione del suo ruolo in quello di propugnatore dell’uso strategico del mezzo aereo secondo la nascente teoria elaborata da Giulio Dohuet con Gianni Caproni.
Di fronte alla sanguinosa paralisi del fronte terrestre, la futura dottrina del “potere aereo” individuava la possibilità di una soluzione rapida nell’impegno a massa di aerei in grado di colpire con grandi quantità di bombe obiettivi importanti – anche immateriali, quali il morale – posti nelle retrovie, o addirittura all’interno del paese avversario. Nel 1913-14 il più convinto sostenitore di questa concezione era stato appunto Dohuet, la cui determinazione consentì all’Italia di realizzare il Caproni Ca.300, primo bombardiere pesante al mondo. Ma Dohuet, che bilanciava l’indiscussa genialità con un carattere difficile e la tendenza a scavalcare la gerarchia, sul finire del 1914 fu allontanato dall’aviazione e poi sottoposto a corte marziale, riportando una condanna a un anno nel settembre del 1916. Questo limitò la sua possibilità di premere a favore del Ca.300 e gli impedì del tutto di adoperarsi per il successivo e più grande triplano trimotore da 600 HP, che aveva iniziato le prove quell’estate con risultati che equivalevano a poter “lanciare 1000 chilogrammi di carico utile su Vienna”. Il riferimento alla capitale austriaca è il primo collegamento tra il bombardiere e D’Annunzio, già da qualche mese alla ricerca del mezzo per attuare il suo “Donec Ad Metam: Vienna!” dell’ottobre 1915. Già in quei giorni, infatti, il poeta aveva discusso con il ten. Col. Barbieri della possibilità di compiere l’impresa con i Ca.300, e il proposito approdò nel 1916 anche sulle pagine della Licenza alla Leda senza cigno. “Si sogna e si disegna un velivolo di forza triplice, robusto e rapido, armato a prua e a poppa; una squadriglia formidabile capace di gettare su Schonbrum diecimila chilogrammi di tritolo”. La pagina della Licenza sembra la trasposizione letteraria dell’operazione che Dohuet aveva tratteggiato a Cadorna almeno dal 3 luglio del 1915, e che l’ing. Gianni Caproni andava in quel momento proponendo alle autorità militari per indurle ad accettare il triplano Ca.600. Ancora nella memoria difensiva presentata al giudice istruttore del tribunale militare di Codroipo, Dohuet ribadiva come una più tempestiva accettazione dei suoi programmi avrebbe reso possibile “lanciare il giorno stesso della dichiarazione di guerra una grossa squadriglia di Caproni 300 HP sul castello di Schonbrum”. Anche se mancano elementi precisi sull’innesco di tale sincronia, il simultaneo apparire di riferimenti a Vienna indica la convergenza in atto fra l’ufficiale, il costruttore e il poeta. E’ certo che, nel novembre del 1916, Caproni descriveva il triplano al ten. Col. Riccardo Moizo come un aereo in grado di colpire “Pola e Vienna. Col margine per andare a Vienna si può contare sempre su quasi una tonnellata di bombe”. Pure certo è che di questo discorso D’Annunzio fu messo a parte molto presto. Pur non potendo dire con esattezza quando le idee dei fautori del bombardamento vennero a convergere con l’aspirazione dannunziana, si può indicare con ragionevole certezza uno dei canali che rinforzarono la sensibilità di D’Annunzio per il potenziale dei Caproni. In quello stesso anno, presso le officine Caproni era approdato, in qualità di ufficiale di sorveglianza della Direzione Tecnica dell’Aviazione Militare, Ugo Veniero D’Annunzio, terzogenito del poeta e di sua moglie Maria Gallese e laureato in ingegneria meccanica a Zurigo.
In contatto con l’industriale e con i piloti ansiosi di colpire Vienna, con un padre la cui notorietà consentiva di sbloccare situazioni o almeno di aprire porte, Veniero divenne uno snodo cruciale nel coinvolgere D’Annunzio in un progetto che andava ben oltre la pura azione dimostrativa, per servire da puntello alla teoria del bombardamento strategico. Fu nella casa milanese di Veniero che nel pomeriggio del 25 gennaio del 1917 D’Annunzio incontrò Caproni e gli disse di aver già illustrato a Cadorna la situazione del triplano, di essere disposto a tornarvi per aggiornarlo e chiedere il permesso per portarne egli stesso il prototipo al fronte. “Cadorna – gli riferì D’Annunzio – è l’unica persona che si entusiasmi facilmente ed è anch’egli convinto che coi bombardamenti delle officine si ottiene di affrettare la fine della guerra. Non conta se non ritornano (…) Fatto il bombardamento, raggiunto lo scopo (…)”. Pochi giorni dopo Veniero ribadì a Caproni che il padre aveva “preso a cuore la guerra aerea” e che ne avrebbe parlato a Cadorna “dal quale è molto ascoltato”. La crescente compenetrazione di interessi e prospettive sfociò nell’assegnazione di D’Annunzio a Pordenone, dove il IV Gruppo Aeroplani schierava tra Aviano, La Comina e Campoformido ben nove squadriglie di bombardieri Caproni e dove il,oeta incontrò i piloti Maurizio Pagliano e Luigi Gori, con i quali avrebbe compiuto, nei mesi successivi, rischiosi voli di guerra contro le basi navali di Pola (notti del 3, 8 e 9 agosto 1917) e Cattaro (notte del 4 ottobre 1917). Dagli incontri scaturirono conseguenze di diversa portata. La prima, più immediata, riguardava il bombardamento di Vienna con Pagliano e Gori, non andato a frutto. La seconda, di più ampio respiro, fu la preparazione del lungo promemoria “Dell’uso delle squadriglie da bombardamento nelle prossime operazioni, inviato dal capitano aviatore Gabriele D’Annunzio a Cadorna l’11 maggio 1917. Pur essendo costituite da una stratificazione di elementi – retorici, dottrinali, operativi, tecnici e commerciai – le note di D’Annunzio sono la prima argomentazione organica in Italia della teoria del bombardamento strategico. Poco importa, sotto il profilo interpretativo, leggerle nell’ottica dei cosiddetti plagi o “prestiti” dannunziani:i coautori, o almeno le fonti, si possono ipotizzare con più che ragionevole approssimazione. Di D’Annunzio è senz’altro l’incipit, come pure le conclusioni. Sue, senza dubbio, le espressioni ricercate “sorti neghittose, temprati petti” o le immagini dantesche delle fanterie italiane che si spingono eroicamente “contro ostacoli da lungo tempo afforzati, contro truppe in gran parte riparate dentro caverne, sotto il fuoco dei vere bolge tonanti che, dal Querceto al Cucco, si concatenano in un mezzo girone con la concavità rivolta a Occidente”. Sua certamente, la cornice culturale e i riferimenti storico-artistici (romanissima perseveranza, il rombo delle ali latine). Sua, naturalmente, la stesura finale, con le tipiche preposizioni disarticolate. Di Caproni, magari per il tramite di Veniero, i dati tecnici sui triplani: Di Dohuet, la previsione della crisi nella quale le armate italiane si sarebbero trovate intorno a Gorizia. Pure di Dohuet, o dohuettiano, il calcolo dell’esplosivo trasportabile dall’ipotetica “squadriglia di cento velivoli” su obiettivi distanti circa quattro ore dalla base. Di Veniero la previsione dei primi velivoli per metà giugno e “presto trentasei”. Di Veniero e Caproni, il dettagliato elenco delle “disposizioni più urgenti” per aumentare la produzione e migliorare l’operatività dei reparti. Tutto questo è, se non vero, altamente probabile e però, allo stesso tempo, non significativo per valutare il contributo all’evoluzione della dottrina del potere aereo. Sfrondato da questi e altri eccipienti, il contenuto dottrinario si articola in tre punti essenziali. Il primo è l’atteggiamento psicologico di totale adesione – più fede che fiducia – nel mezzo aereo, considerato non singolarmente ma per il suo contributo allo sforzo bellico. In privato. D’Annunzio lo esprimeva in tono naturale “solo con l’aviazione possiamo vincere la guerra; (…) se la guerra finisce entro il 1917 non può essere che con la pace germanica. Altrimenti finirà (…) entro il 1921, mentre nelle Note il linguaggio è aulico: “Chi si rende prigione, o cede la sua ala, si può dire veramente che pecchi contro la Patria, contro l’anima e contro il cielo. (…) Questo deve essere inscritto nella tela, nel legno, nella lamiera, nel cemento, nella pietra, in ogni luogo dove sieno ricoverati i velivoli e convivano gli aviatori”. L’atteggiamento non è originale, ma attesta la genuinità del convincimento dannunziano sul ruolo dell’aviazione e allontana il sospetto di un’adesione di facciata. Il secondo punto allarga il contributo dell’aviazione oltre la mera distruzione. !L’attività assidua delle nostre squadriglie meglio armate” darebbe alle truppe a terra “un conforto morale e un’illusione animatrice (che) si aggiungono all’efficacia bellica”. L’asserto è doppiamente interessante. Da un canto, la dottrina del potere aereo descrive solitamente l’effetto morale in termini di riduzione dello spirito combattivo avversario, mentre D’Annunzio vi scorge un aumento della propria volontà. Dall’altro, tale concetto è totalmente assente in Dohuet e Caproni e potrebbe, dunque, risentire di osservazioni dirette compiute presso la 45^ Divisione dallo stesso D’Annunzio, di cui è nota la capacità di “afferrare” immagini e sensazioni. Il terzo punto è il più organico, perché delinea i compiti che il bombardamento avrebbe potuto svolgere in guerra: In questo caso, l’originalità è dettata dal fatto che l’autore non attribuisce all’aeroplano capacità miracolose di immediata conclusione dei conflitti – come tendevano a fare Dohuet e altri teorici del potere aereo – ma piuttosto missioni alla portata dei mezzi già disponibili. Elenca D’Annunzio: “Concorrere al logoramento dell’avversario, proseguito dal lungo tiro notturno e diurno, in modo da fiaccare la resistenza, operando inoltre sui centri vitali, sui luoghi di raccolta, sulle arterie visibili per ove affluiscono i viveri e le risorse; determinare con la massima esattezza le postazioni delle artiglierie nemiche, là dove non possono servire gli osservatori terrestri; impedire che le squadriglie austriache possano avvicinarsi alle nostre batterie, costituendo contro di loro il così detto “sbarramento aereo”; infine, eseguire un bombardamento simultaneo sugli spazi segnati dal comando nel suo foglio al 25.000; ecco i principali compiti dell’aviazione nella battaglia prossima”. Salvo l’accenno ai “centri vitali”, nulla potrebbe essere più lontano da Dohuet e da Vienna. Nessun colpo decisivo, ma un concorso al “logoramento” per “fiaccare”, piuttosto che travolgere, la resistenza. Nessuna missione a distanza ma un’area di operazioni profonda all’incirca dieci chilometri. Nessun attacco a fabbriche remote, ma controaviazione e controbatteria a ridosso del fronte. Nessuna armata aerea indipendente, ma stretta subordinazione ai comandi di superficie, un concetto reso ancora più esplicito poche righe più avanti: “Ora è manifesto di quanta efficacia, nel determinare le sorti dell’azione, possano essere le nostre squadriglie da bombardamento spedite l’una dopo l’altra sopra i nuclei di fuoco ostile designati dal Comando”. La concretezza è tale da far supporre che possa avervi contribuito una persona, che come un comandante di squadriglia o lo stesso comandante del IV Gruppo, dotata di quella robusta esperienza operativa di cui era del tutto sprovvisto Dohuet. Un quarto punto notevole si ha in apertura, laddove D’Annunzio, o il suo ispiratore, mostra di comprendere le difficoltà pratiche di una “rappresaglia aerea” da contrapporre alla guerra sottomarina tedesca al fine di “danneggiare, menomare, abolire la produzione bellica degli Imperi centrali” e dichiara “oggi troppo ambizioso considerare la possibilità di una vasta impresa “interalleata”: Pertanto, l’ipotesi di un bombardamento di Essen viene si esaminata e trovata di costo inferiore a quello di “una nave grossa”, ma solo per tornare subito “ai nostri limiti, (…) alle nostre necessità imperiose, alla nostra dura guerra”. L’originalità della posizione si può comprendere ove si consideri che circa un mese più tardi, il 23 giugno 1917, dal carcere di Fenestrelle, Dohuet indirizzava al ministero della Guerra due memorie. La prima consisteva in una proposta di carattere generale, la seconda in uno studio concreto su come si sarebbe potuto passare “all’attuazione positiva dell’idea” mediante la costituzione di “una grande armata aerea interalleata”. Il contrasto non potrebbe essere più completo: da un lato, l’azione strategica risolutiva a massa di Dohuet; dall’altro, una dottrina operazionale, affine a quella che avrebbe elaborato 15 anni più avanti John Slessor: Pur contemplando entrambe Vienna quale obiettivo, si può dunque dire che per D’Annunzio la capitale avesse valore innanzitutto simbolico in una concezione eroico-estetica, mentre per Dohuet era concreto e assoluto. L’una realizzabile e realizzata nonostante i vincoli politico-umanitari, l’altra bloccata innanzitutto dalla mancanza di materiale idoneo. La divergenza non impedì a Dohuet, peraltro, di considerarsi accomunato a D’Annunzio dalla fede nelle possibilità dell’aeroplano. Il 23 aprile 1918, quando aveva ormai scontato la pena ed era Direttore Centrale del nuovo Commissariato per l’Aeronautica, Dohuet dichiarò esplicitamente a D’Annunzio le loro affinità: “Quest’arma nuova dai mille impieghi imprevedenti non può essere compresa che da un poeta che la divini o da un logico che la presenta e, purtroppo poesia e logica non abbondano: attorno ai pochissimi che ne sentono tutta la poesia e tutta la forza sta la massa indifferente, cui sola virtù è l’inerzia, lenta da smuovere, spesso contrastante ed irridente nello sforzo. (…) Attendiamo il domani che realizzerà il nostro sogno”. Le dimissioni di Dohuet dall’incarico interruppero la corrispondenza, che riprese solo nell’autunno de 1918. Dohuet stava sfogando le energie nella letteratura e chiese a D’Annunzio la prefazione per il racconto fantasmagorico Come finì la grande guerra: La vittoria alata. Per quanto forte il suo interesse per l’aviazione, D’Annunzio non accettò. Il rifiuto potrebbe spiegarsi con la bassa qualità letteraria dell’opera, ma più importante appare l’inversione dei ruoli sottointesa alla richiesta, nella quale il “logico” Dohuet riconosce al poeta D’Annunzio un’autorevolezza in tema di guerra aerea assai maggiore della propria, almeno agli occhi del grande pubblico. Un riconoscimento, in parte opportunistico, ma anche consapevole della credibilità che l’esperienza di volo di guerra conferiva a D’Annunzio.


Titolo originale: D'Annunzio poeta immaginifico e aviatore concreto, di Gregory Alegi, pubblicato su Rivista Aeronautiva n.2-2009.
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