Il Fronte del Cielo - Aeroporti - 12.1 - Campi di Aviazione
Del modesto numero di campi d’aviazione esistenti in Italia alla viglia della guerra quelli dell’Esercito erano solo 25 (più i due idroscali di
San Feliciano e
Desenzano e quelli della Marina), di cui un terzo privi di aree coperte. In previsione del rispiegamento operativo
che sarebbe stato richiesto nel caso di entrata in guerra a fianco dell’Intesa e contro gli
ex-alleati della Triplice, sin dal gennaio 1915, ben tre mesi prima che fosse siglato il Patto di Londra (26 aprile 1915), la Direzione Generale dell’Aeronautica del Ministero della Guerra aveva affidato al sottotenente
Gino Laureati una ricognizione sui possibili campi di atterraggio nelle zone dell’alto Cadore, della Carnia e del Friuli.
I criteri di scelta dei luoghi adatti erano abbastanza semplici: “Il terreno sul quale deve sorgere un campo di aviazione
deve essere piano, sgombro da vegetazione, asciutto. Allo smaltimento dele acque (…) si provvede in genere con comuni opere di drenaggio, scavando nel terreno opportuni canali della sezione adatta alla portata stabilita. (…) I campi
di aviazione devono poi permettere un facile transito a tutti i mezzi di trasporto occorrenti per l’esercizio dell’attività aerea. (…) Molte volte sono allacciati direttamente con la Ferrovia. (…) Gli hangars in generale sono collocati
ai limiti del campo.” Una caratteristica vitale, ma raramente resa esplicita nella letteratura dell’epoca, era che il terreno permettesse di atterrare e decollare in ogni direzione. Come spiegava un manuale di pilotaggio postbellico:
"Qualora eccezionali circostanze non lo impongano, il velivolo deve essere
fatto partire contro vento, a meno che questo non sia di intensità
assolutamente trascurabile (...)". Solo alcune delle località visitate da
Laureati videro poi effettivamente la costruzione di campi d'aviazione. Tra
di esse vie era
Cavazzo Carnico, il cui fondo valle in direzione di Cuel
Feltron era piano per sette chilometri, ma anche numerose aree intorno a
Udine. Interessante ad esempio la descrizione de "l'ampia distesa dei Parati
di
Rivolto" tuttora base del 2° Stormo e della PAN dell'Aeronautica
Militare. Sriveva Laureati: " Della superficie complessiva di mq 2.100.000
circa, ai quali si può accedere da più parti, essendo contigui alla
provinciale suddetta, alla rotabile che sale da Rivolto verso Beano ed alla
rotabile che da Bertiolo conduce a Villacaccia ed oltre (...) La zona è a
prato naturale, sodo e asciutto e privo di vegetazione: strade campestri la
attraversano in parte e profondi fossati la dividono in ampi rettangoli da W
a E, per modo, però, da lasciare la più ampia scelta sulla linea di
atterraggio e di partenza." Per contro il giudizio negativo su
Campoformido
fu ribaltato prima dagli italiani che vi basarono squadriglie da
bombardamento (
10^ e
14^ Caproni), da caccia (
82^) e ricognizione
(111^); poi dagli austriaci, che vi ricavarono non meno di otto campi. A
Chiasiellis dove Laureati descrisse "due ottimi appezzamenti di terreno
(...) furono basate nel 1915 la
1^ e la
2^ Squadriglia e nel 1917 le
squadriglie da ricognizione
27^ e
35^. Per facilitare la consegna di
apparecchi in volo, lungo la direttrice Torino-Pordenone fu allestita una
serie di campi di emergenza che, limitando la probabilità di danni dovuti ad
atterraggi precauzionali o per avaria, avrebbero facilitato il trasferimento
al fronte. Caratteristiche principali di tali campi erani il basso costo, le
ridotte dimensioni (appena 300 per 100 metri) e l'assenza di qualsiasi
infrastruttura. Tra le mille conseguenze della rotta di Caporetto vi
fu anche l'abbandono da parte italiana della rete di campi di aviazione e
delle loro infrastrutture. La ritirata portò a dover concentrare grandi
masse di velivoli su di un minor numero di campi che non sempre possedevano
caratteristiche adatte, come indica una descrizione di San Pelagio
tramandata da un pilota da bombardamento:" Il campo di san Pelagio era, tra
tutti i campi della fronte, il più caratteristico per la sua conformazione,
ed il più inadatto ad atterrarvi con apparecchi Caproni. Quando, dopo la
ritirata di Caporetto, si fu costretti ad occuparlo perchè prossimo alle
linee nemiche, i piloti si rassegnarono a qualche inevitabile "cappottata"
dovuta sopratutto alla paludosità del terreno e alla sua poca lunghezza. La
parte frontale era occupata da un antico castello dove risiedevano i comandi
delle squadriglie, gli alloggi degli ufficiali, l'infermeria, il comando di
gruppo, il gabinetto fotografico. Prima di accedere al prato, si passava
dinanzi ad un laghetto (...), al suo fianco una collinetta artificiale,
ricca di piante (...). Agli altri tre lati del campo alberi e alberi. Gli
hangars erano stati costruiti alle due estremità presso il fabbricato. Ci
voleva una perizia non comune ad atterarre in quello spazio di terra così
limitato che offriva pericoli da tutte le parti. (...). La cerscita degli
aeroporti ed il concentramento su di essi di grandi quantità di aerei li
rese obiettivi importanti nel quadro delle operazioni di controaviazione.
Sul fronte italiano l'episodio più rilevante fu la cosidetta"battaglia aerea
italiana" del 26 dicembre 1917. Il campo, base di sei squadriglie italiane,
di cui due da ricognizione (
22^^ e
36^^) e quattro da caccia (
70^,
76^,
78^,
82^), nonchè di reparti inglesi, fu attaccato da una quarantina di
apparecchi tedeschi al mattino e da 8-10 al pomeriggio: gli italiani ne
abbatterono non meno di dieci. Nonostante questo risonante successo era però
chiaro come il concentramento di una massa così impnenete di velivoli su un
unico aeroporto non facesse che invitarealtre incursioni, per cui il 30
dicembre si provvide a trasferire la
70^ a
S. Pietro in Gù e la
82^ in
altra sede.
Il 1 giugno 1915 esistevano 21 campi con una superficie coperta complessiva
di 23.956 mq, con una media di 1140 mq ciascuno. Da parte italiana il ritmo
d'accrescimento dei campi si mantenne costante ed elevato per tutto il
conflitto: nel solo primo anno di guerra furono coperte altre 73.796 mq su
29 campi. In questa fase mancavano tuttavia molte attrezzature essenziali,
portando qualcuno ad affermare che "il mio apparecchio, dove mi sono fatto
cotruire una tavoletta per scrivere lettere, è il posto più comodo qua,
perchè al campo non abbiamo nulla per ora. Il
Commissario Chiesa dichiarò
che alla data del 1 novembre 1917 i campi d'aviazione erano stati portati da
45 a 62 e gli hangar da 327 a 656, più 144 ceduti al Comando Supremo. I
campi erano in prato e spesso ghiaiosi, e il fango e i sassi solllevati
dalle molle dei pattini producevano una vera strage di eliche. Per ovviare a
questi inconvenienti, nonchè alle limitazioni operative in caso di forti
pioggie, nell'ultima parte del conflitto iniziò a farsi strada il concetto
di pista asfaltata o comunque pavimentata. La prima realizzazione del genere
in Italia si ebbe a Taliedo mentre non ne risulta alcuna in zona operativa.
Nella primissima fase della guerra conobbero una certa fortuna gli hangar
smontabili, che potevano agevolmente seguire gli spostamenti delle
squadriglie, mentre lo stabilizzarsi del fronte ed il graduale
consolidamento degli apprestamenti portò alla realizzazione di opere in
muratura o comunque vincolate solidamente al terreno. In Italia furono
impiegati diversi hangar smontabili, dapprima dei tipi "Mercandino" e
"Sarzotto" e sucessivamente di quelli "Aviazione" e "Bessaneau". I primi
costituivano una evoluzione di un modello già utilizzato in Libia e
misuravano 16 per 13 metri: nel giugno 1917 ne esistevano già 207. Un
analogo modello francese, l'Hervieu, potrebbe essere quello di forma
vagamente triangolare, interamente in tela che compare in mumerose immagini
di campi di aviazione. Adottato su vasta scala anche il Sarzotto di 20
per 12 metri. Dell'Aviazione esistevano due i tipi A e B che purtropppo non
siamo in grado di distinguere, costituiti fino a dieci capriate in legno, di
20 metri di luce, intervallate di quattro metri. Ogni campata veniva a
misurare 20 per 36 metri. La struttura del Bessaneau era simile, salvo la
diversa forma "all'ingelse" delle capriate e dei puntoni di rinforzo,
anch'essi fatti a traliccio "a forma di sottomarino" ed inclinati di 45° .
Le dimensioni erano di 20 per 28 metri. Tutti questi avevano la
chiusura frontale a tenda, e gli ultimi due erano inìmpiegati
indifferentemente per aeroplano o idrovolanti. L'unico hangar
smontabile per dirigibili era il Bosco-Donatelli che, impiegato in Libia,
non ebbe fortuna nella Prima Guerra Mondiale. Le aviorimesse permanenti
erano invece di due tipi principali, a capannoni affiancati con apertra sul
lato minore di ciascun modulo oppure a campata unica con tetto ad un solo
spiovente. Nel primo caso gli alllestimenti comprendevano solitamente da tre
a sei moduli, affiancatio senza pareti interne, con pilastri in
cemento e capriate in legno di circa 20 metri di luce, con pareti esterne in
muratura ampiamente sfinestrate e tetto coperto in lastre di Eternit.
Nel caso di ricovero per apparecchi di grandi dimensioni quali i plurimotori
Caproni, nelle installazioni permanenti era frequente l'impiantare un
sistema di rotaie che, abbinato a carrellini studiati per accogliere le
ruote dei velivoli, ne permetteva il ricovero longitudinale alternato con il
miglior sfruttamento della superficie coperta disponibile. Questo tipo
potrebbe coincidere con il "Gioia e Bernasconi"di cui non abbiamo
descrizioni, e inoltre esisteva anche un tipo semisiffo smontabile in ferro
e lamiera delle Officine Savigliano. Eleganti, ma testimoniati
fotograficamente solo sul campo di
Cavazzo Carnico, gli hangar Fontana-Rava
a pianta poligonale e compartimenti radiali: permettevano infatti di
"eliminare gli angoli morti, di ricavare al centro un officina accessibile
da tutti i compartimenti e di provvedere meglio alla chiusura dal lato
dell'uscita degli apparecchi.
Una particolare serie di campi di atterramento fu approntata nel 1917 per le consegne di aerei e
ricambi ai depositi in prossimità del fronte. Gli aerei erano inizialmente consegnati
via ferrovia in cassoni di legno. Si predispose quindi una rotta per il trasferimento
regolare in volo dei mezzi tra Torino e Pordenone. Data la relativa affidabilità dei
velivoli si rese necessario creare una rete di campi di emergenza che i piloti potevano
usare in caso di bisogno tra una tappa e l'altra. Questi piccoli campi erano distanziati
di circa 20 chilometri l'uno dall'altro ed erano provvisti di segnalazioni, di un ricovero
per l'aereo e del carburante per il rifornimento. Alla ricerca e all'approntamento
di queste superfici contribuì anche la Lega Aeronautica Nazionale, la più famosa
associazione aeronautica italiana dell'epoca. Nel 1917 la rotta fu attiva con una serie
di 31 campi e si sviluppava sul percorso: Mirafiori/Venaria (TO), Settimo Torinese,
Chiasso, Saluggia, Bianzè, Viancino, Olcengo, Albano Vercellese, San Pietro Mosezzo,
Cameri (NO), Argonate, Pogliano, Baggio (MI), Taliedo (MI), poi attraverso
Bergamo (Ponte S.Pietro) e Brescia (Castenedolo) attraversava la Lombardia. Nel
Veneto essa passava per Verona, Belfiore, Montebello Vicentino, Quinto Vicentino.
Castello di Godego, Istrana, Arcade, Mareno di Piave, Godega Sant'Urbano, Sacile
raggiungendo infine Pordenone. In effetti il servizio non si dimostrò così efficiente e
le consegne proseguirono soprattutto per via ferroviaria. Poi da novembre fu giocoforza
cambiare il percorso, spostando e arretrando i depositi di destinazione a Poggio
Renatico (FE), Rubiera (RE) e Taliedo (MI) per i bombardieri.
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